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Fac Simile Patto di non Concorrenza tra Imprese Word e PDF

Aggiornato il 13/05/2025

In questa pagina mettiamo a disposizione un fac simile patto di non concorrenza tra imprese Word e PDF editabile da compilare e stampare.

Si tratta di un fac simile che può essere utilizzato come esempio di patto di non concorrenza tra società.

Patto di non Concorrenza tra le Aziende

Il patto di non concorrenza tra imprese è un istituto che coniuga la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’articolo 41 della Costituzione italiana con l’esigenza, altrettanto costituzionalmente tutelata, di evitare che la competizione si trasformi in una forma di aggressione capace di pregiudicare investimenti, know how e organizzazione aziendale. La norma cardine che ne delinea i contorni giuridici è l’articolo 2596 del codice civile, il quale richiede la forma scritta come presupposto di prova, impone che la limitazione sia circoscritta a un determinato ambito territoriale o merceologico e fissa un tetto massimo di cinque anni oltre il quale la clausola si riduce automaticamente alla durata legale. Quest’ultima precisazione rivela la volontà del legislatore di bilanciare l’interesse privato alla protezione con l’interesse pubblico alla permanenza di un mercato contendibile, evitando che un impegno eccessivamente prolungato cristallizzi posizioni dominanti.

La ragione che giustifica la legittimità di tali patti è duplice. Da un lato vi è l’esigenza di preservare l’avviamento di un’impresa da comportamenti di free-riding altrui: si pensi all’ipotesi, tutt’altro che rara, di due aziende che collaborano per sviluppare un prodotto ad alto contenuto innovativo e intendono impedire che, subito dopo la conclusione della partnership, una delle due sfrutti in via esclusiva le conoscenze acquisite sottraendo clientela alla controparte. Dall’altro lato esiste la necessità di assicurare la stabilità economica di operazioni straordinarie, come fusioni, scissioni o cessioni d’azienda, nelle quali il prezzo pagato incorpora un valore collegato alla clientela e all’immagine del cedente; senza un vincolo di astensione dallo svolgere attività concorrenziale, la remunerazione riconosciuta potrebbe rivelarsi ingiustificata.

L’ordinamento, però, non si limita alla cornice generale dell’articolo 2596. Impone un’ulteriore condizione implicita, desumibile dall’articolo 2595, secondo cui la concorrenza, anche se può essere limitata, non deve ledere gli interessi dell’economia nazionale. Ne discende che qualsiasi pattuizione che travalichi i limiti quantitativi o qualitativi imposti dal codice si espone alla sanzione della nullità per contrasto con norme imperative dirette a salvaguardare l’assetto concorrenziale complessivo. La stessa ratio pervade la disciplina speciale dettata, in tema di trasferimento d’azienda, dall’articolo 2557: chi aliena deve astenersi per cinque anni dall’esercitare un’attività idonea a sviare la clientela. Nonostante questa disposizione riguardi un divieto legale che opera ex lege, la sua portata aiuta a comprendere la soglia di tollerabilità che l’ordinamento reputa compatibile con la libertà d’impresa: già la legge, in assenza di qualsiasi clausola negoziale, ritiene ragionevole bloccare la concorrenza dell’alienante per un periodo non superiore al quinquennio.

Quando il patto di non concorrenza nasce come accordo autonomo tra due operatori, esso si configura a tutti gli effetti come contratto atipico fondato sull’autonomia contrattuale ex articolo 1322. Può anche inserirsi, come clausola accessoria, in contratti tipici quali forniture, joint venture, distribuzioni selettive o franchising. In entrambi i casi il legislatore esige una delimitazione puntuale. La Cassazione ha sottolineato come indeterminatezza o eccessiva estensione territoriale traducano la clausola in uno strumento di elusione dei limiti imposti dalla norma e la rendano nulla. La ragione sta nel fatto che la concorrenza è per sua natura un bene giuridico di rilievo collettivo, sicché qualunque sacrificio ulteriore rispetto al necessario dev’essere ritenuto contrario all’ordine pubblico economico. Il requisito della concreta concorrenza tra le parti è stato messo in rilievo dalla sentenza n. 16026 del 2001: l’articolo 2596 non si applica a rapporti che coinvolgono soggetti privi di attitudine competitiva reciproca, come avviene quando un imprenditore stipula un accordo con un collaboratore esterno privo di autonoma capacità di entrare sul mercato. Questa puntualizzazione appare decisiva nel distinguere i patti di non concorrenza veri e propri da accordi differenti, aventi natura di tutela della riservatezza o di esclusiva di approvvigionamento. La dimensione temporale, anche se ancorata al limite dei cinque anni, si intreccia con la valutazione di proporzionalità richiesta dalla giurisprudenza: un vincolo, anche se contenuto entro tale soglia, potrebbe essere comunque sproporzionato qualora l’interesse meritevole di tutela sia limitato a una fase di lancio del prodotto o di messa a regime dell’investimento, che richieda un periodo più breve. In tali circostanze il giudice può ravvisare un eccesso repressivo e mitigare la portata della clausola. La proporzionalità si riflette anche nella determinazione della penale: importi abnormi, nei quali la sanzione diventa economicamente insostenibile, sono stati più volte cassati per contrasto con il principio di equità e con la funzione, essenzialmente risarcitoria e di prevenzione, che la penale dovrebbe svolgere.

È opportuno osservare che l’ordinamento distingue i patti di non concorrenza dalle ipotesi di divieto di concorrenza previste ex lege. Il codice civile, per esempio, preclude agli amministratori di società di capitali, senza autorizzazione assembleare, l’esercizio di attività in concorrenza con quella sociale, mentre l’articolo 2105 pone in capo al lavoratore subordinato un obbligo di fedeltà che vieta trattative concorrenti. In entrambe le ipotesi il divieto discende direttamente dal rapporto giuridico e non richiede una specifica stipulazione né, salvo contemplare clausole aggiuntive, soggiace ai limiti di cinque anni. Proprio in ragione di questo assetto esiste una netta linea di demarcazione tra divieti legali ed accordi convenzionali, e tale distinzione diventa cruciale quando si valuta la validità di pattizi aggravamenti del divieto legale: la dottrina maggioritaria ritiene che questi possano essere concordati, a condizione di rispettare comunque i limiti di articolo 2596, incluso quello temporale.

Sul piano applicativo, il patto di non concorrenza tra imprese incontra un vaglio ancor più accurato quando coesiste con normative di matrice antitrust. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e, a livello sovranazionale, la Commissione europea, valutano se la restrizione generi effetti escludenti sproporzionati in mercati in cui le parti detengano quote significative. L’accordo può essere considerato un’intesa restrittiva ai sensi dell’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, con il rischio di pesanti sanzioni pecuniarie e di nullità assoluta. Ciò significa che la verifica di legittimità non si arresta al dato civilistico, ma prosegue in chiave pubblicistica, misurando l’incidenza sull’interesse generale alla concorrenza. Nel contesto del Regolamento di esenzione per categoria 2022/720, le clausole di non concorrenza interne a rapporti verticali sono ritenute in linea di principio legittime se non superano i cinque anni e se le parti non oltrepassano determinate quote di mercato; tuttavia, allorché l’accordo sfoci in una ripartizione territoriale rigida o preveda limitazioni post-contrattuali oltre il tempo stabilito, esso esce dalla zona di sicurezza e dev’essere valutato caso per caso.

Una volta stipulato, il patto produce obbligazioni di non fare che si concretano, per la parte gravata, nell’astensione dall’esercizio di attività concorrenziale. L’inadempimento può determinare non solo la responsabilità contrattuale e l’attivazione di una penale, ma anche la richiesta di misure inibitorie e, nei casi di particolare gravità, il risarcimento del danno per sviamento di clientela o distruzione di valore immateriale. In termini probatori, l’impresa che agisce in giudizio deve dimostrare l’effettiva violazione e il nesso causale con il pregiudizio subito; in questo contesto trovano frequente applicazione i criteri presuntivi elaborati dalla Corte di cassazione, che valorizzano l’analogia di prodotti e la coincidenza di aree commerciali come indizi potenzialmente sufficienti a fondare la prova dell’avvenuta concorrenza indebita.

Il momento estintivo del patto merita altrettanta attenzione. Se il termine convenuto o legale giunge a scadenza il vincolo si scioglie automaticamente, ma non è raro che la parte beneficiaria tenti di prolungarne gli effetti in via di fatto. In tali situazioni l’altra parte può sollevare eccezione di inefficacia, giacché la tutela della concorrenza riemerge in tutta la sua ampiezza. Non è invece consentito rinunciare tacitamente al limite quinquennale attraverso proroghe successive che, sommate, superino la soglia: la dottrina prevalente ritiene che siffatta pratica aggiri la ratio della norma e si traduca in un patto nuovo che, se privo di un autonomo interesse meritevole, rischia di essere dichiarato nullo.

L’esperienza applicativa suggerisce buone prassi capaci di ridurre il rischio di invalidazione. La prima consiste nel calibrare la clausola sul perimetro esatto dell’attività che si intende proteggere, evitando definizioni eccessivamente ampie quali qualsiasi attività industriale o tutto il territorio nazionale quando l’impresa opera soltanto in specifici segmenti o aree. La seconda raccomanda di inserire un meccanismo di revisione in caso di eventi che mutino l’assetto di mercato, come l’ingresso di nuovi operatori, la dismissione di linee di prodotto o l’adozione di tecnologie alternative. Un’ulteriore cautela risiede nella previsione di penali proporzionate al possibile danno prevedibile, onde evitare che lo sbilanciamento deterrente sia percepito dai giudici come sintomo di clausola vessatoria.

Il patto di non concorrenza, in definitiva, può rappresentare un efficace strumento di tutela degli investimenti e di pianificazione strategica purché sia concepito come misura eccezionale, giustificata da esigenze specifiche e modellata su criteri di ragionevolezza. L’impresa che vi ricorre deve ricordare che l’ordinamento accorda fiducia alla capacità dei privati di autolimitarsi, ma pretende rigore nella determinazione degli ambiti oggettivo, territoriale e temporale, pena la perdita di efficacia dell’accordo e la possibile esposizione a conseguenze sanzionatorie ben più onerose del rimedio che si intendeva predisporre. Solo nel rispetto di tali coordinate il patto di non concorrenza si trasforma da ostacolo potenziale al libero mercato in un fattore di stabilità, in grado di valorizzare l’innovazione e di salvaguardare la correttezza competitiva senza comprimere oltre il necessario la dinamica imprenditoriale.

Fac Simile Patto di non Concorrenza tra Imprese
Fac Simile Patto di non Concorrenza tra Imprese

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